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Il Coronavirus e l’ambiente: due facce della stessa medaglia….o della stessa terra.

di Nicola Chiaranda, Professore di Finanza nell’Università Ca’ Foscari di Venezia

La crisi legata alla diffusione del Coronavirus che stiamo vivendo mostra, una volta di più, come il mondo sia un villaggio globale, per dirla con Marshall McLuan.

Le azioni, virtuose, o nocive, di ciascuno si ripercuotono sugli altri: il mondo è sempre di più una casa comune, dove tutti siamo, in qualche modo, responsabili del benessere di tutti.

Ne derivano da un lato la necessità di educare le generazioni nuove, e non solo quelle, al senso di responsabilità per il benessere della collettività, e dall’altro la necessità di agire per migliorare la situazione, senza tergiversare.

Il presidente francese Macron, nel suo discorso televisivo ai francesi del 16 marzo, ha ripetuto svariate volte ‘siamo in guerra’, in guerra contro il Coronavirus.

In queste circostanze eccezionali, l’azione individuale virtuosa di prevenzione e limitazione del contagio deve tradursi in azione collettiva, dove i governi, gli Stati e le autorità sovranazionali devono fare la loro parte, favorendo i comportamenti dei cittadini che possono ridurre il contagio.  Da un lato, sostenendoli nel momento di bisogno sanitario ed economico, e dall’altro, sanzionandone i comportamenti che possono nuocere alla collettività, come quelli che favoriscono il propagarsi del virus.

La situazione drammatica, provocata dal virus, con centinaia di nuove vittime al giorno e  migliaia in pochi giorni, e le conseguenti necessarie risposte sia individuali che collettive, devono anche farci riflettere su un altro processo di rovina collettiva che da anni sta avvenendo su scala molto maggiore, ma più lentamente, in slow motion, quello ambientale.

Effetto serra, buco dell’ozono, aumento delle temperature, scioglimento dei ghiacci, innalzamento del livello dei mari, cambiamento climatico con conseguente forte aumento delle catastrofi ambientali, inquinamento, depauperamento dei suoli, crisi idriche su vasta scala, sono ormai fatti assodati, anche per chi ha ancora interessi politici ed economici a negarli. Un ripensamento dei nostri comportamenti individuali e collettivi si impone e non può essere ragionevolmente rimandato.

Ma che fare in concreto?

È necessaria una nuova alleanza tra la microeconomia delle coscienze e la macroeconomia virtuosa degli Stati e delle organizzazioni sopranazionali che sostenga la protezione ambientale.

È evidente che il progresso dei popoli e l’accesso a nuovi beni e servizi anche nei paesi emergenti non possono essere fermati o negati. Occorre quindi orientare le nazioni verso un modello di produzione più sostenibile.  Da un lato, serve ridurre gli sprechi (nelfood si stima, per esempio che un terzo del cibo sia sprecato) e dall’altro lato, occorre ridurre i consumi e la quantità di risorse necessarie a soddisfarli. Cosi facendo si diminuirà l’impatto sull’ambiente.

Consumare meno per consumare tutti verrebbe da dire. E anche per star meglio.

Per esempio, la ridotta mobilità legata ai provvedimenti di confinamento Coronavirus in Italia ha ridotto negli scorsi giorni in modo rilevante l’inquinamento atmosferico della pianura padana. Si stima che, solo in Italia, questo salvi 100 vite umane al giorno delle 34000 l’anno altrimenti falcidiate dalle conseguenze dell’inquinamento ambientale.

Ecco, quindi, che occorre esplorare altre soluzioni per ridurre l’impatto ambientale. Il telelavoro che riduce gli spostamenti quotidiani, la diffusione di smart worke sistemi di tele- e video- conferenza, la consegna a domicilio dei beni, la prestazione di servizi a domicilio, la produzione di energia da fonti rinnovabili, la riduzione del consumo energetico attraverso l’efficientamento, lo sviluppo dell’economia circolare che riutilizza risorse anziché scartarle, l’eliminazione dell’obsolescenza programmata.

Naturalmente, gli Stati e i governi devono educare i cittadini e indirizzare l’economia verso un modello diverso, introdurre incentivi e disincentivi per facilitare i cambiamenti, perché è chiaro che gli stessi sono destinati a  produrre degli effetti di redistribuzione di ricchezza tra i diversi settori industriali e aree geografiche che occorre artificialmente riequilibrare per mantenere la pace sociale.

Se vogliamo portare il nostro pianeta verso uno sviluppo sostenibile dobbiamo quindi accettare la fine del liberismo selvaggio e del laissez faireche ha caratterizzato molti paesi negli ultimi 40 anni e spingere gli Stati  e le autorità sovranazionali  a promuovere politiche concertate, dalle quali a nessuno deve esser permesso di tirarsi fuori.

Ovviamente l’obiezione principale allo sviluppo sostenibile è che lo stesso sia incompatibile con la crescita economica. Tuttavia, come ha recentemente ricordato Marc Carney, ex governatore della Banca del Canada, poi di quella d’Inghilterra e ora inviato speciale delle Nazioni Unite per il cambiamento climatico, tagliare le  emissioni e portare la terra a livello zero nella produzione di CO2 non danneggerebbe la crescita economica, perché questo richiederebbe enormi investimenti.

Soluzioni per ridurre l’impatto ambientale e necessità di educare i cittadini, si diceva.  Educare, particolarmente quelli dei paesi emergenti dove la sensibilità ambientale è ancora poco sviluppata, alla conservazione delle risorse e all’idea della casa comune: acqua, aria, terra, fuoco (inteso come energia) sono patrimonio dell’umanità, presente e futura, e come tali vanno conservati e tutelati.

Attraverso l’educazione, ma non solo, l’opinione pubblica va mobilitata. Ha grande capacità di influenzare i produttori: occorre che le pratiche ESG (environmental, social, governance), che le imprese utilizzano sempre di più per migliorare la loro immagine, con evidenti rischi di greenwashing, siano regolamentate e che le metriche a supporto delle pratiche ESG non siano lasciate all’iniziativa individuale, ma codificate, misurate, riportate annualmente e certificate da organismi indipendenti.

E poi occorre promuovere la tecnologia. Come dice il noto serial entrepreneurPeter Thiel, la globalizzazione senza tecnologia è insostenibile. Fare di più con meno risorse a costi inferiori è quello che la tecnologia aiuta a realizzare e, quindi, occorre metterla al servizio della sostenibilità.

D’altro canto, la tecnologia genererà nuovi consumi, più o meno virtuali, che non inquinano, che creano comunque ricchezza e crescita economica. Progressi nel campo della medicina, della scienza, dell’educazione, dell’alimentazione, del vertical farming,nuove esperienze, realità virtuale, aumentata, intelligenza artificiale, ecc.: lo sviluppo sostenibile non significa arrestare la crescita economica mondiale.

Gli Stati e gli organismi sovranazionali devono fare da catalizzatori in tutto questo: favorire i modelli alternativi, promuovere lo sviluppo della tecnologia attraverso investimenti e mobilitare l’opinione pubblica, soprattutto nei paesi emergenti.

E poi i cittadini devono fare la loro parte nell’alleanza virtuosa, cogliere le opportunità che il nuovo modello sostenibile e tecnologico presenta, finanziando dal basso innovazione e sostenibilità, per ottenerne anche ritorni economici. “Aiutati che il ciel t’aiuta”, proteggi la casa comune rendendola economicamente sostenibile, perché è l’unica via per la salvaguardia del nostro pianeta e delle generazioni presenti e future che lo abitano.

NC – 21/3/2020

Nicola Chiaranda
Professor of Finance @ University of Venice, Non-Executive Director, Virtual CFO, Merger & Acquisitions support, Strategic reviews, Start-up support, Agri & Food Projects.

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